La Mondadori fa bene (il Male siamo noi)

Il post sui CAZ (Contratti ad Anticipo Zero) ha avuto molta risonanza in rete. Soprattutto fra blogger, editor, giornalisti, operatori culturali, librai, lettori forti. Pochissimi invece gli scrittori, Mondadori o meno, che hanno sentito propria la questione. Tutti gli altri sono quindi d’accordo. Oppure pensano che saranno sempre CAZ degli altri, oppure ancora temono di esporsi. Non mi interessa sindacare paure o opinioni individuali. È un fatto che questa somma di silenzi individuali significhi una cosa sola: la Mondadori fa bene.

Al che mi viene da aggiungere: la Mondadori non è il Male. Il Male siamo noi.

Mi spiego.

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In America gli sceneggiatori hanno bloccato la macchina di Hollywood, agendo tutti uniti (da Paul Haggis all’ultimo arrivato) come un qualsiasi sindacato di lavoratori che rivendica diritti e rifiuta certe condizioni. In Italia, dove comunque il cinema ha avuto una dimensione industriale, non è mai esistito un contratto nazionale per la categoria di chi scrive storie. Figuratevi nell’etereo Olimpo delle Lettere.

Tenetevi forte: nel Nord Europa si possono avere borse di studio per scrivere un romanzo. Provate a proporre una cosa del genere in Italia. Vi ritroverete subito contro tutti, dal PD alla Lega al M5S. Un Partito Trasversale della Micragna che vi ricorderà subito i metalmeccanici disoccupati, le famiglie che non arrivano a fine mese, gli imprenditori che si danno fuoco, gli allevatori della Padania, i pignorati da Equitalia.

Scrivere non ha dignità di attività necessaria alla vita in questo Paese, quindi non è lavoro.

Il paradosso è casomai che a stabilirlo sia anche un grande gruppo editoriale che rivendica ferree logiche imprenditoriali e ha dimensioni industriali. Com’è possibile che chi fa il vino accetti di pagare tutto sull’unghia, meno l’uva? Che un costruttore paghi l’architetto solo quando avrà venduto le case?

Non c’è da andare fino a Segrate per capirlo. Basta andare in pizzeria quando, dopo aver ordinato una capricciosa, qualcuno ti chiede se davvero campi scrivendo. Lo capisci quando dire che sì, insomma fai lo scrittore ti mette in una luce molto più fascinosa rispetto a chi fa un lavoro. Pro e contro, verrebbe da dire.

Io sono stato educato ad avere un’alta considerazione della parola lavoro. Non di rado mi capita di ammirarlo. Una volta, per esempio, sono rimasto chiuso fuori di casa e ho chiamato una ditta di pronto intervento. Il tipo arriva, riconosce il modello di serratura e si illumina in volto: “Ah,” dice. “Ricordo un seminario fantastico su queste Douglas-Hamilton-Peppard a doppio tamburo sincrono glissante. Era il 2002, a Monticello Brianza”. Sembrava parlasse di una notte di passione con un’amante indimenticabile. Ho visto l’amore luccicare nei suoi occhi. Ciò non toglie che abbia dovuto pagarlo.

La questione dei Contratti a Anticipo Zero ha a che fare con l’idea di cosa sia lo scrivere romanzi, ma anche con il concetto di lavoro. In Italia scrivere romanzi non può essere un lavoro anche perché lo si fa con piacere, talvolta con amore. Che poi il piacere rimanga solitario o l’amore non corrisposto, si sa, fa parte del gioco. Ma di sicuro il lavoro non deve contemplare né il primo né il secondo.

Questo vale ovviamente per la maggioranza dei comuni mortali. Si può scampare a questo gramo destino solo cercando di entrare in una di quelle élite di privilegio che chiamiamo “caste” solo se, e fino al giorno in cui, non ne facciamo parte. Nell’immaginario italiano lo scrittore – più o meno famoso – appartiene ancora a una di queste élite. Sembra un accrocchio postmoderno fra una popstar, uno spirito eletto e un nobile sopravvissuto a se stesso. Divisi in ranghi a seconda della loro posizione in classifica, gli autori possono avere una grande coscienza del proprio ruolo personale ma non posseggono quella di classe: appartengono a casate diverse che intrattengono rapporti solo esteriormente cordiali. In quanto investiti dal diritto divino del talento, non svolgono un lavoro e trovano piuttosto inelegante discutere di soldi. Almeno in pubblico, si capisce.

11 pensieri su “La Mondadori fa bene (il Male siamo noi)

  1. Sai, finché tutti continueremo a credere che il semplice atto di “pensare” sia del tutto naturale, quindi non dispendioso, saranno sempre di più coloro che si riterranno “pensatori”. Senza discriminare tra chi pensa e basta e chi trasforma questo pensiero in storie, cultura, filosofia. Un po’ come avviene per il calcio: solo perché si è giocato a pallone da bambini tutti sono autorizzati a sentirsi coach. Mi dirai: che c’entra questo? Mi spiego. Il pensiero che porta alla scrittura è la fase evoluta dell’atto naturale di “pensare”, per questo dai più non è visto come un lavoro. Per questo proliferano pessimi libri, perché tutti si sentono autorizzati a farlo. E per questo si è arrivati a parlare di CAZ. Questa ovviamente è l’estremizzazione del problema. A monte c’è molto di più.

  2. Più in generale è la conferma del nostro miope individualismo, che in ogni forma di rapporto con il potere è un’opzione perdente.

  3. Mettici anche che da noi i soldi con l’arte non vanno d’accordo, che commerciale vuol dire merda, che molti non fanno impresa, ma ‘cultura’, che molti editori non si sa neanche loro come campino visto che i libri non li sanno vendere. Non è lavoro, giammai , per cui attacchiamoci al caz.

  4. Grazie per questo post. Il fatto fondamentale è che scrive chi se lo può permettere. Come tutto il resto. La discriminante di classe si sente in ogni ambito, ma in quello della scrittura ancora di più. Aggiungici la pregiudiziale del “non è un vero lavoro”, che hai messo bene in luce, e il gioco è fatto. Ah, beata ignoranza…Non potremo parlare di pari opportunità finché la situazione rimane questa – che chi scrive è chi ha tempo e denaro per farlo, e questo è legato molto più spesso alla questione “culo” (sic) che non alla questione “merito” (il primo rende sistematicamente possibile il secondo).

  5. La tristezza è che siamo in un paese schizofrenico: fra le pressioni “intellettuali” crociane che portano a disprezzare le techne per amare l’arte, e dall’altra parte la spinta utilitarista “depravata”, che spinge un ministro dell’economia a dire che “la cultura non porta a casa uno stipendio”. E’ questo approccio che fa collassare anche gli editori. Da un lato sicuramente un grosso editore deve avere una controllata che consenta il self-publishing, ma fa parte dell’essere grandi editori anche l’avere una linea editoriale. Il problema del concetto di lavoro è una conseguenza diretta: Per arrivare a rinunciare al valore del lavoro altrui, si è partiti rinunciando al valore del proprio lavoro, ovvero, quando lo fa un’azienda, rinunciando ad avere lo sguardo verso l’orizzonte e dimenticando come si è arrivati ad oggi…

  6. Potrei pure sbagliare, ma mi è sembrato che sei partito bene, o almeno da una realtà, e poi sei arrivato al mitico o fantascientifico (o quello che vuoi) immaginario collettivo. Perdona la retorica. Purtroppo parlo con una minima cognizione di causa (che tenta di liberarsi dall’aneddotica e dalla correlatività), dal punto di vista di uno che scrittore forse non lo è ancora, e italiano forse non proprio. So però che nel caso fortuito o meno che mi venga proposto un contratto del genere molto probabilmente non accetterò, ma sarà soprattutto perché spero di usare mezzi più potenti (se mi permetti l’espressione), o più potenti almeno di un libro, in italiano, della mondadori, di “nicchia”, come riporta il giornalista.

  7. Articolo davvero interessante. Credo che il problema sia che visto che in Italia scrivere non è un lavoro, nessuno ti insegna come farlo, mentre all’estero ci sono fior fiore di corsi di laurea che hanno sfornato grandi autori contemporanei, e se in questo fantastico paese ti capita di imparare a farlo, non può certo essere stato un merito o il frutto di un duro lavoro, ma solo un colpo di fortuna o una raccomandazione, perché a scrivere sono tutti buoni se solo avessero il tempo e la voglia di farlo. Peccato che scrivere è un lavoro, che uno scrittore non scrive quando ha voglia o ha l’ispirazione ma scrive anche quando voglia non ne ha, perché ci sono delle scadenze, dei concorsi, dei contratti, delle tempistiche da rispettare e che lo fa di notte o rubando il tempo alla famiglia, ai week end, al sonno… perché le idee non si trasferiscono da sole su carta ne tutto fila liscio alla prima stesura, ma questo è il mito e va perpetrato. Peccato che le case editrici siano aziende e del mito a loro importi poco. Se chi scrive facesse capire davvero la fatica, il lavoro e la formazione che c’è dietro questo mestiere, il mito cadrebbe, ma forse ci si potrebbe riappropriare della dimensione reale della scrittura.

  8. @Patrizia T. “Se chi scrive facesse capire davvero la fatica, il lavoro e la formazione che c’è dietro questo mestiere, il mito cadrebbe, ma forse ci si potrebbe riappropriare della dimensione reale della scrittura”. Mentre cercavo di esprimere il mio punto di vista ho trovato che la tua chiusa fosse perfetta e ampiamente sottoscrivibile.

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