L’estate dorata delle ragazze perdute

Dal mio scaffale su “Il Tirreno” del 24 novembre 2014:

IMG_0458-0.JPGI bei libri hanno dentro una storia appassionante. E poi ci sono bei libri che di una storia incredibile sono stati anche protagonisti. È il caso di “Cioccolata a colazione” di Pamela Moore, fondamentale riscoperta appena ripubblicata da Mondadori (€ 13, 6.99 in e-book).
È il 1956 e gli editori statunitensi cercano disperatamente un’autrice giovanissima e scandalosa. La diciannovenne francese Françoise Sagan ha infatti stravenduto in tutto il mondo con “Bonjour, tristesse”, romanzo classico e sofisticato della gioventù dorata preda di un mal di vivere senza vie d’uscita.
Potrebbe risolversi in un’operazione di pronta cassa, e invece all’editore Rinehart va di lusso: trova la sua enfant prodige in Pamela Moore, diciottenne newyorkese, di buona famiglia e di ottimi studi.
Rinehart cercava una ragazzina da dare in pasto al perbenismo pettegolo, invece lancia un romanzo a metà fra “Il giovane Holden” e quel “Colazione da Tiffany” che uscirà di lì a due anni. Protagonista è la sedicenne Courtney, divisa fra il college, un padre letterato e una madre in cerca di fortuna come attrice a Hollywood. Courtney è infatuata di una sua insegnante, alla prima pagina viene provocata dalla sua amica del cuore, finirà nel letto di un attore omosessuale in crisi con il compagno. La prosa è nitida e i dialoghi, nella loro apparente ripetitività, hanno un effetto realistico sorprendente. La Moore affonda il bisturi nel cuore della borghesia americana più “cool”, ed è un cuore freddo intriso di solitudini, di alcool, di violenze. Una diciottenne aveva appena scritto un romanzo che le sue coetanee non sarebbero state autorizzate neanche a leggere.
La censura e le scomuniche non si fanno attendere, il successo mondiale neppure. Per tutta risposta lei viene in Europa a studiare i luoghi delle grandi battaglie medievali. Si sposa, ha una figlia e torna in America. Scrive ancora, ma la cinica grazia di quel suo primo romanzo è perduta. La diciottenne che aveva chiuso il suo grande esordio accorgendosi di “quanto l’estate fosse finita in fretta”, chiude la sua esistenza sparandosi in bocca un giorno di giugno del 1964. Ha ventisette anni e su di lei scendono decenni di inspiegabile oblio. Ma basterebbe solo un dato a far capire l’importanza emblematica di questo romanzo. “Cioccolata a colazione” ha trasformato il nome maschile Courtney in un nome che dagli anni Sessanta in poi milioni di donne americane continuano a dare alle loro figlie.

Il tramonto dei commissari

Che l’epoca dei commissari e dei serial killer sia al tramonto è chiaro ormai da qualche anno (in Italia ci arriveremo con calma, in quanto periferia abbiamo sempre quel leggero delay). Il tramonto arriva non solo perché la formula è consunta all’inverosimile. Si tratta di un cambio di prospettiva sul crimine. Un fenomeno complesso. Da parte mia, mi limito a mettere in fila solo un paio di fattori.

Uno è il racconto del delitto che la televisione ci propina a ciclo continuo, un racconto spesso morboso e ricattatorio oltre i confini del trucido. In questo quotidiano racconto di miserie, gli inquirenti non compaiono, non possono comparire perché impegnati a fare le indagini vere. E quindi i delitti di Garlasco o di Avetrana vedono salire sulla ribalta una pletora di parenti, amici, conoscenti, vicini dei protagonisti implicati. Quale che sia la verità processuale, si indaga l’universo di relazioni, spesso intime, in cui un delitto è stato compiuto, si parteggia di pancia per questo o quel tipo umano.

L’altro è lo scenario di crisi che stiamo vivendo. Che è una crisi economica, anzi finanziaria, ma non è del tutto leggibile se non la si racconta anche come crisi del concetto di autorità autorevolezza. Oggi sappiamo che questa crisi è stata causata dalla totale irresponsabilità morale e materiale di coloro a cui abbiamo affidato il nostro voto e i nostri risparmi. Ovvio che tutto questo si traduca in smarrimento e in sfiducia verso le istituzioni. E un ispettore, per quanto non porti mai la divisa, alla fin della fiera rappresenta l’autorevolezza – magari residua – delle istituzioni, l’idea che lo Stato abbia il dovere (ma anche il potere) di prendersi carico della verità e della giustizia.

Le uniche storie che dovrebbero chiamarsi a buon diritto noir raccontano, da sempre, questo: la perdita totale di certezze oggettive. L’individuo è solo con il proprio senso di giustizia, la propria verità e le proprie ossessioni. Le storie che oggi vengono definite family crime talvolta possono essere un mix da parrucchiera di Cronaca Vera e Confidenze. Talvolta invece possono essere noir travolgenti e primitivi in virtù di una loro profonda e sottile raffinatezza.

Questo romanzo del 1952, di cui ho scritto lunedì scorso su Il Tirreno, ne è ancora oggi un esempio strepitoso.

i diabolici

Dal mio scaffale su Il Tirreno del 3 novembre 2014

Gli addetti ai lavori li chiamano già da un paio d’anni “Family crime”. Si tratta di torbide storie di suspense che fanno a meno di serial killer, investigatori o mafie globalizzate. È il nucleo familiare il mondo che viene travolto dal delitto, dalla bugia, dalla complicità, dall’odio. Saranno le storie di punta del 2015. Senza andare a tirare in ballo le vicissitudini di Edipo, non si tratta di novità, ma di un prepotente ritorno. A ricordarcelo è Adelphi che, dopo averci regalato tutto lo straordinario Simenon senza Maigret, ripropone oggi con grande tempestività l’opera di due maestri francesi del noir che a Simenon si ispirarono, ispirando a loro volta il cinema di Hitchcock (“La donna che visse due volte” è tratto da un loro romanzo). Sono Pierre Boileau e Thomas Narcejac, coppia affiatatissima e prolifica per tutto il dopoguerra. E Adelphi non poteva iniziare che dal loro capolavoro “I diabolici” (euro 16, in e-book 11,99). Esiste qualcosa di più diabolico del triangolo lui-lei-l’amante (in tutte le declinazioni possibili)? Da “La fiamma del peccato” a “Brivido Caldo” ad “Attrazione fatale” pensate di aver letto e visto tutto? Boileau e Narcejac vi sorprenderanno. Questo romanzo del 1952 vi sorprenderà anche per il ritmo elevato e ansiogeno della scrittura. Un ritmo che fa masticare molta polvere ai bestseller di oggi. Un ritmo che è in primo luogo della frase, e quindi tutto psicologico. Ravinel, un uomo mediocre, pavido e senza ambizioni, ha pianificato di uccidere la moglie Mireille assieme all’amante Lucienne. Il piano riesce ma, incomprensibilmente, il cadavere scompare. E non solo: Mireille viene avvistata, viva, in quel di Parigi. Per Ravinel si spalancano le porte dell’incubo. Il suo progetto di affrancarsi dalla mediocrità e cambiare vita assieme a Lucienne si rivela per quello che davvero è: un potente desiderio di autodistruzione. “I diabolici” è un romanzo fondamentale per capire che il noir è genere leggibilissimo e coinvolgente, ma è anche strumento raffinato per raccontare la perdita di identità e di sicurezze. Non a caso il noir germogliò da una costola dell’hard boiled americano durante la Grande Depressione del 1929. Se queste storie tornano oggi a raccontarci qualcosa di attuale, un motivo ci sarà. Le ultime due righe di questa settimana sono dedicate a un appello agli editori: un altro gigante del noir, Cornell Woolrich, è ormai pressoché assente dalle librerie italiane, fisiche e virtuali. E questo, sì, è un autentico delitto.