Honky tonk news

Se ci ripenso adesso, quelle ballerine del Crazy Horse erano impennacchiate come dei cavalli alsaziani al circo. Ma a undici anni io lo aspettavo in gloria, il mercoledì sera: Odeon era l’audace rotocalco in cui si poteva sbirciare qualche seno nudo. Che andasse in onda su una emittente di Stato rendeva la cosa ancora più eccitante, credo. Odeon era un programma con una sigla travolgente, un grafica pop, un’impaginazione funky.  E per sigla finale, una scatenata corsa in treno suonata da Keith Emerson. A inventarlo assieme a Emilio Ravel era stato Brando Giordani, scomparso proprio pochi giorni fa.

La grande intuizione di fondo, la vera novità era che la febbre del sabato sera, il frisbee o l’industria dei film a luci rosse non fossero necessariamente argomenti così frivoli o di secondo piano rispetto alla politica o alla cronaca. Anzi. Nella società dello spettacolo, l’informazione sullo spettacolo poteva raccontare quello che davvero ci stava accadendo. Nella società  dello spettacolo, lo spettacolo avrebbe occupato prima o poi tutta la scena, quindi era una cosa seria, ancorché di apparenza leggera. L’intuizione proiettava già una profezia epocale, una nemesi del tutto logica in cui oggi siamo completamente immersi: tutto quello che non sarà spettacolo, spettacolare o spettacolarizzabile, non sarà mai veramente accaduto.

Era il 1976, era l’alba italiana dell’infotainment, mutazione genetica da cui la televisione non sarebbe più tornata indietro. Un ibrido scivoloso in cui si dovrebbe (condizionale d’obbligo) fare intrattenimento e informazione con la stessa qualità, lo stesso scrupolo, lo stesso rispetto verso il pubblico. Una doppia lealtà, una doppia deontologia. Sono talmente pochi a esserne capaci che negli USA uno come David Letterman sta lì da trent’anni a intervistare Kissinger, Ray Charles, Megan Fox o Barack Obama.

Questa creatura mutante si prestò da subito a mille varianti. Renzo Arbore, Enzo Tortora e anche il primo Emilio Fede la declinarono a loro modo con successo. Ma le creature mutanti sono imprevedibili e si possono trasformare in mostri, rivelarsi sorprendentemente deboli o del tutto sterili.

Oggi l’impaginazione dei contenitori pomeridiani alterna l’atroce morte di Sara Scazzi con il rapporto difficile che Miss Italia ha con le sue doppie punte. Si passa con scioltezza dal test del DNA ai bucatini, da Padre Pio al suo noto omonimo Pulcino. Oppure l’infotainment diventa un frappè di inchiesta e di sberleffo, la vibrante denuncia è condita con chilometri consolatori di cosce. E allora è ovvio che anni di Gabibbo e di Iene hanno sì acceso i riflettori su magheggi, truffe, malfunzionamenti e scandali, ma rimangono vere le parole perfette di Marco Paolini, “l’indignazione per gli italiani è come l’orgasmo: dura qualche secondo e poi ti viene sonno”.

Indietro non si torna, il processo evolutivo – piaccia o no – è irreversibile. Ma ha i suoi paradossi. Il più grande, il più amaro è questo: l’infotainment, nato per informarci senza stancarci, è oggi una macchina complessa e raffinatissima che detta le regole sia a Barack Obama che a Matteo Renzi. Per molti di noi il primo è cool perché ha nella playlist gli U2 e il Boss, mentre il secondo sarebbe un farlocco perché va a una sfilata di Armani. Ma no, non è così che funziona. Sono entrambi messaggi politici nel linguaggio della società dello spettacolo. Messaggi obliqui e dotati di una loro complessità. Per decodificare cosa davvero faranno Obama o Renzi al di là dei programmi dichiarati, bisogna saper leggere un’inquadratura, capire un riferimento musicale, interpretare una cravatta, cogliere le sfumature di piccoli e grandi gesti. Leggere dieci pagine de L’Unità con il documento conclusivo di un congresso del PCI o ascoltare Aldo Moro era più noioso, d’accordo. Ma per certi versi era più semplice, fidatevi.

E comunque grazie, Brando Giordani. Sigla finale.