Confesso che quando Sellerio mi ha proposto di ripubblicare Rosa elettrica prima ho esultato sotto la curva (tanto, di questi tempi nella Kop di Anfield Road o nel mio studio ci sono esattamente lo stesso numero di persone), poi ho rimandato vigliaccamente la rilettura del testo fino a quando ho potuto.
Perché è passato qualche anno da quando questo romanzo arrivò per la prima volta in libreria. E da quei giorni il tempo si è messo ad andare sempre più veloce.
Avete presente aprire una scatola di vecchie foto (o collegare al pc un hard disk con una delle prime prese usb)? Ti rivedi con la camicia di flanella a quadrettoni o un taglio di capelli assurdo e richiudi tutto con un sorriso di tenerezza e imbarazzo. Ti guardi bene dal farle rivedere a qualcuno di cui vuoi conservare la stima.
Io ho pensato: e se mi succede così? E se il romanzo mi sembra invecchiato? O se, invece, in quelle pagine mi rivedo troppo giovane?
Per quanto la felpa di Bart Simpson fosse censurabile, nelle vecchie foto la gioventù rimane se non altro un valore in sé. Ma nella prosa essere giovani rappresenta un valore in sé? C’è stato un momento in cui l’editoria, per ragioni di marketing, avrebbe promosso libri contenenti “djh+++òd°°dhfs*8///jdncb-sdy262te6&£/“£&nbxVVVVV<vvvvv”, utilizzando l’età come scudo spaziale di fronte a qualsiasi critica: “okay, non ci si capisce niente, però considerate che l’autore lo ha scritto gattonando sulla tastiera” (parentesi polemica: quando uno legge Zerocalcare o Stieg Dagerman non sta lì a pensare “ammazza com’è bravo, per essere giovane”. Se uno è bravo, è bravo. Se uno non è ancora maturo, può pure attendere di superare la trentina per pubblicare. Anche se perde gli anni della massima potenza muscolare non è che deve marcare Mbappè).
Alla fine ho dovuto rileggermi, è chiaro. Ed è andata. Una ripulita, qualche paragrafo snellito, un personaggio secondario meglio definito, un paio di snodi di trama resi più chiari. Ma Rosa elettrica funziona. E avendolo riletto in modo analitico e con il distacco impietoso del tempo mi pare che funzioni per un paio di motivi. Non si dovrebbe mai recensire se stessi, l’ho scritto anche di recente, ma almeno un paio di questioni mi va di sottolinearle.
Primo: Rosa Elettrica è il ritratto di due personaggi, è la storia del loro brevissimo, sconvolgente incontro, del loro viaggio a perdifiato nelle notti più buie d’Europa. Lo stile è quello necessario a raccontare una storia così, e una storia ambientata nell’Italia del 2007. Non è un manifesto di estetica, e neanche una mia presa di posizione ben leggibile solo rispetto al panorama stilistico o editoriale del 2007. Non è, insomma, una camicia di flanella a quadrettoni. È il massimo di trasparenza, è il diaframma minimo per farvi sentire a contatto con Rosa e con Cociss. È la forma che serve a dare sostanza a quella vicenda. L’unica possibile. E qui vengo al secondo punto.
Oggi le protagoniste femminili vanno per la maggiore, anche gli autori maschi più scaltri hanno allestito la loro brava eroina con cui ammiccare al pubblico, in prevalenza femminile, della narrativa. In Italia, al tempo c’erano state la Grazia Nigro di Lucarelli e la Giorgia Cantini della Verasani.
Ma nel mio caso specifico l’unica forma possibile per scrivere questa storia era il punto di vista di Rosa in prima persona femminile.
Anni fa c’era molta più gente che si sentiva autorizzata a stabilire se che dovesse essere una “voce femminile” credibile, senza neanche porsi il problema di usare, magari in buona fede o per una giusta causa, uno stereotipo di genere. Oggi sono sicuro che lettrici e lettori ameranno o meno Rosa in quanto personaggio, stop.
Qualche anno fa però fu un azzardo, sì. Come quelli che Rosa compie nel romanzo. Perché un’altra cosa che oggi capisco è che il destino di Rosa e quello di questo romanzo alla fine si assomigliano. Ma questa è un’altra storia. Magari un giorno la racconterò.